La storia I valori di riferimento Perché una scuola?
LO SGUARDO ANTROPOLOGICO
CHE CI GUIDA
Mettere per iscritto
i sogni non è mai cosa semplice perché significa nutrire
la profonda speranza che essi si realizzeranno. Descriverli è
un po' rovinarli, toglierli alla loro perfezione per far sì
che ne acquistino una nuova - più fragile ma ancor più
bella -, quella che può esserci soltanto entrando nella realtà.
Queste brevi righe vogliono quindi dare un po' di voce ad un sogno,
perché questo possa, con la forza di un leone e la pazienza
di una formica, acquisire un po' di realtà.
La strada da percorrere assomiglia ad uno stretto sentiero di montagna,
impervio e faticoso, che corre fra rocce e stradine fangose, e che
a tratti si allarga, trova punti panoramici mozzafiato, si infittisce
nei boschi, si stupisce di rigoli d'acqua, si inciampa in radici
e pietre sconnesse. Un sentiero che non ha l'ambizione di diventare
una strada asfaltata e non vuole esserlo se questo vuol dire rinunciare
alla vista di cui si gode dalla cima del monte. Come ogni cammino
anche questo ha delle tappe: una preoccupazione, che a tratti diviene
paura angosciante, una speranza, che anima e muove ricordandoci
la direzione, un sogno, che contemporaneamente si costruisce e ci
nutre.
La preoccupazione che ci muove sorge da un sentimento di smarrimento
vissuto davanti ad una società che sembra non avere più
la forza di accogliere in sé la vita dell'uomo e della donna
che aspirano, naturalmente, ad essere pienamente se stessi. Sembra
di essere vittime di un incantesimo, che però di magico ha
ben poco, capace di trasformare i nostri desideri più profondi
in semplici appetiti, la nostra speranza in aspettative e la nostra
vita in semplice esistenza.
In molti fra poeti, romanzieri, filosofi e artisti hanno con sofferenza
denunciato la barbarie di un mondo che, dimentico di sé e
della sua bellezza possibile, non fa altro che ripetere schemi in
cui l'essere umano è ridotto a rotella di un ingranaggio
che lo rende schiavo e spesso cieco verso la sua stessa sudditanza.
Una voce autorevole in tal senso è quella di Ivan Ilich -
scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco - che con insistenza
e fermezza mostra come il mito del progresso e dello sviluppo senza
limite abbia rapidamente invaso la nostra vita infilandosi in ogni
suo aspetto. Il lavoro, la sanità, la scuola, la vita quotidiana,
risentono pesantemente di questo processo che sostituisce la macchina
all'uomo, invertendo il rapporto essere umano-strumento: gli oggetti
non sono più strumenti utili all'uomo che può costruirli,
utilizzarli e distruggerli, ma diventano per lui indispensabili
al punto da renderlo schiavo. E' chiaro che una simile percezione
è artificialmente costruita, ma si è così radicalmente
affermata da essere percepita ormai come naturale. Ciò implica
una sudditanza nei confronti degli strumenti, che solo raramente
è vissuta come ingiusta o pericolosa: per lo più si
crede che sia il prezzo da pagare per una vita migliore, cioè
più lunga e soddisfacente. La coincidenza fra progresso e
bene risulta evidente: si crede cioè che tutto ciò
che porta ad un aumento della produttività e dell'efficienza,
quindi della velocità e della durata - prima fra tutte quella
della vita - sia buono a prescindere.
Oggi, attraversato quel XX secolo in cui Illich vive e di cui denuncia
le dinamiche di oppressione, non possiamo che constatare che tale
processo non soltanto non si è arrestato ma assume connotati
ancor più oscuri, sia perché meno visibili, sia perché
più insidiosi. Il mito del progresso si è modernizzato
e viene chiamato crescita, ma la parola nasconde soltanto la volontà
di rendere il mondo un immenso ingranaggio di produzione in cui
la vita umana ha valore soltanto nella misura in cui diventa olio
per questo meccanismo presentato come infallibile.
In tale dimensione uomini e donne vengono ubriacati con la pubblicità
del successo, che riduce il desiderio umano, sorgente di creatività,
novità, invenzione, a appetito da saziare il più velocemente
possibile. Questo è vero tanto nella vita dei singoli quanto
in quella delle comunità: ciascuno procede individualmente
e ogni progetto comune è contaminato dall'arrivismo e dalla
prevaricazione sociale. Mentre crediamo di realizzare la nostra
vita in realtà non facciamo altro che darla in pasto ad una
potenza sconosciuta che si disinteressa completamente di noi e della
nostra felicità. Di qui il bisogno di prolungare la vita
il più possibile, necessità che sorge in realtà
da un vuoto di senso che, se avvertito, denuncia l'inutilità
di una esistenza sprecata.
Così brevemente delineata la situazione della nostra epoca
sembra quantomeno disperata, ma non è certo alla disperazione
e all'angoscia che vogliamo arrenderci. In tale orizzonte il primo
rischio da evitare è infatti quello di cedere all'illusione
di un destino cieco che ci renderebbe schiavi e impotenti - visione
tanto tragica quanto rassicurante -. Maria Zambrano, filosofa spagnola
del Novecento, con un paradossale gioco di parole ricorda[1] che
il destino fatale diventa cieco soltanto quando è negata
la speranza che esso custodisce, cioè quando il destino luminoso
presente in forma embrionale non trova la via della realtà
e rimane nella storia come una musica che nessuno ha mai suonato.
Il tempo può scorrere senza che nulla accada veramente, senza
che ci sia storia: l'uomo può continuare ad esistere, magari
sempre più a lungo, senza però vivere neppure un secondo
della sua vita.
E' proprio su questo punto che si giocano la nostra speranza e il
nostro sogno. Una speranza che, tutt'altro che ingenuamente, nasce
da un esempio e da una convinzione. L'esempio viene da tutte quelle
esperienze che denunciano l'oblio del senso della vita del singolo
e dell'intera comunità umana; la convinzione, ad esse legata,
è nutrita dall'amore profondo per l'essere umano che mostra
di essere origine di novità, creazione, trasformazione. Quello
che si vuol mostrare è che il destino che l'essere umano
vive oggi può essere invertito, che la sua storia può
essere un'altra, e che sperare in tale direzione non è ingenuo
o utopistico ma è segno di responsabilità nei confronti
di una umanità dimentica del suo futuro.
E' chiaro che simile visione nasce da una preciso sguardo antropologico
che ci sembra essere fedele al nucleo di senso profondo della vita
umana. L'idea che ci guida è che il vero nemico della vita
non sia la morte fisica, da sfuggire e allontanare il più
possibile, ma quella morte ancora più radicale che coincide
con l'aver sprecato la propria esistenza. Maria Zambrano scrive
che "si può morire pur rimanendo vivi; si muore in molti
modi: in certe malattie, nella morte del prossimo e, ancor di più,
nella morte di ciò che si ama e nella solitudine prodotta
dalla totale incomprensione, dall'assenza di possibilità
di confessarsi, quando a nessuno possiamo raccontare la nostra storia"[2].
Si tratta di scoprire che l'uomo e la donna non si trovano nel mondo
soltanto per esaurire il tempo che hanno a disposizione ma per viverlo
in modo da fare della loro esistenza un cammino di nascita.
In tale orizzonte sembra coerente e vero seguire la filosofa spagnola
nella descrizione dell'uomo come un essere nascente: tutti condividiamo
l'esperienza di una prima nascita, quella biologica, ma è
possibile per ciascuno affrontare nuove nascite che conducano ad
essere veramente se stessi, ad esprimere pienamente chi possiamo
essere. Sarebbe ingenuo credere che un simile percorso sia certo
e predeterminato: è la vita stessa ad insegnarci la forza
del tragico che permea e continuamente insidia il nostro cammino.
Ma occorre riconoscere che, nonostante la morte, la sofferenza,
la schiavitù diretta o indiretta, le forme di oppressione,
il nostro senso di impotenza e inutilità, possiamo essere
diversamente.
Ciò significa anzitutto riappropriarsi del tempo e viverlo
come alleato, trasformando l'avvenire che ci hanno insegnato in
futuro vero, cioè un tempo nuovo in cui possa sorgere qualcosa
di radicalmente altro.
E' qui che si instilla il sogno che vorremmo acquisti realtà.
Nessuna speranza si nutre senza un sogno che sappia suscitare azioni,
guidare scelte, proporre rischi: esso è da intendersi non
tanto come un'immagine cui avvicinarsi, ma come una guida e un progetto.
La guida suggerisce la saggezza di un uomo colto, la pazienza di
un insegnante, l'amore di una madre o un padre, la forza di un amico,
la dolcezza dei nonni; è tutto ciò che ci sostiene
e conduce costruendo con noi la nostra strada. D'altra parte è
progetto, simile allo schizzo che un pittore fa sulla tela. Non
è nulla di definito una volta per tutte e la sua imprecisione
non è un limite, ma la traccia e l'orizzonte di qualcosa
che soltanto attraverso di noi può nascere pienamente.
Il sogno che ci guida e che con noi cresce è quello di una
società giusta e libera, capace anzitutto di prendersi cura
della vita che in essa si dischiude. Una realtà che sappia
accogliere l'uomo nella sua interezza, con le sue fragilità,
i suoi dolori, la sua speranza di scappare alla morte, la sua voglia
di essere veramente se stesso.
Il sogno di cui parliamo racchiude la certezza che un altro modo
di esistere sia possibile, che l'umanità intera condivide
un destino di luce che non ha ancora scoperto, e che ognuno di noi
può lavorare affinché questa realtà fiorisca.
Nutriamo la profonda speranza che questo sogno, sorgendo nel cuore
della nostra esperienza, ci renda abbastanza forti da non arrenderci
alle sue sfide e abbastanza liberi da stravolgere ogni giorno i
nostri piani.
D'altro canto, se quanto detto fin qui ha qualche valore, la più
grande speranza è che questo sogno non appartenga mai veramente
a nessuno per poter appartenere a tutti. Scrive Zambrano: "la
storia è sogno, il sogno dell'uomo [
] risvegliarsi,
senza smettere di sognarsi, è come avere un sogno lucido"[3];
educarci a rispondere al sogno che da sempre siamo è la vera
sfida: riconoscerlo e con tutte le forze abbandonarci ad esso.
[1] Cfr Delirio y Destino, Mondadori, Madrid 1989, tr.it. di R.
Prezzo e S. Marcellini, Delirio e Destino, Raffaello Cortina editore,
Milano 2000, p.235. La fatalità è, paradossalmente,
qualcosa di evitabile, qualcosa a cui si può porre rimedio,
con e nella storia, rispondendo alla chiamata della speranza, lasciando
che essa si manifesti in tutta la sua pienezza. Quando però
ciò non accade e la speranza si smarrisce in cerca della
sua casa, allora subentra il destino cieco, l'orizzonte di ciò
che è ormai inevitabile.
[2] M. Zambrano, Delirio e Destino, p. 16.
[3] M. Zambrano, Delirio e Destino, p. 65.